Non gli piaceva fare il pastore, lo trovava
faticoso, noioso e poco stimolante: correr dietro a quattro pecore, osservarle
mentre passeggiano e tranquille consumano il loro pasto, mentre lui come un
idiota sprecava il suo tempo prezioso.
Avrebbe potuto essere davanti al Tempio di
Gerusalemme ad ammirarne lo splendore, o giù davanti al mare ad imbarcarsi su
una di quelle navi che se vanno dall’altra parte del mondo, lontano dal puzzo
belante delle sue pecore. Dall’altra parte del mondo! dove la vita non se ne
sta di spalle, ma ti guarda in faccia e sorride. E più ci pensava, più sentiva
salire dentro di se l’alta mare che affogava tutti i suoi sogni, costringendolo
a boccheggiare in preda all’angoscia.
Non sopportava l’idea di guardare il mondo
di spalle e malediva le sue pecore; troppo lente, troppo stupide per fare una
corsa e portarsi in pari con la vita.
Si chiamava Zaccheo, ed era meglio saperlo perché
odiava essere chiamato pastore e rispondeva con uno sputo.
Abitava ai confini del paese, lungo un
fresco ruscello che gli permetteva di non recarsi sino al pozzo ogni volta che
voleva l’acqua.
“Che fortuna hai Zaccheo” lo invidiava chi
doveva affrontare ogni volta la salita verso la sorgente per procurarsi un poco
d‘acqua.
“Fortuna?! Provate voi a dormire con un
ruscello che non sta mai zitto, è un incubo! Non riesco nemmeno a sentire cosa
dicono i sogni.”
Aveva rinunciato a contare le pecore,“Sono
tutte uguali, mi confondono; una più un meno!” pensava “ Magari sparissero
tutte! E dove sono andati a cacciarsi i lupi? Magari si sono già imbarcati
sulla nave giusta. Maledetti.”
E si addormentava stanco di sentirsi nel
posto sbagliato, stanco di combattere per non essere cancellato dal bianco
delle sue pecore.
Quando ritornava all’ovile osservava il
tramonto colorare di rosa le sue pecore. Col cuore triste e rosso dalla rabbia
pensava a come era bella la vita là in fondo, oltre le montagne, là dove tutto
si illumina d’oro, mentre lui era lì chiuso in una prigione di batuffoli di
lana.
Se solo avesse trovato il coraggio di
abbandonare le pecore, di sfilarsi quel puzzolente maglione di lana che lo
immobilizzava come una camicia di forza!
Poi arrivò l’agnello nero.
Una fastidiosa macchia tra il bianco delle
sue pecore.
Non sopportava quel buco nero nel suo
gregge, era convinto che da lì entrasse una corrente d’aria fredda nociva alla
salute delle bestie.
Quando si svegliava la prima cosa che
vedeva era il punto nero dell’agnello che aveva impresso nella testa.
Decise così di isolare l’agnellino.
Quella notte non era riuscito a dormire e
si alzò quando il sole ancora riposava dietro le montagne. Iniziare la giornata
prima del sole gli dava fastidio.
“ Ma dimmi tu se è mai possibile - si
lamentava – il giorno non è ancora iniziato e io sono già qui a star dietro
alle pecore” ma la prima boccata d’aria di quel giorno ancora addormentato lo
sorprese. Aveva un aroma dolce, frizzante, giallo. A respirarlo bene, quel
giorno si capiva che era unico. Unico come tutti i giorni.
Ma Zaccheo era troppo occupato a pensare
all’insoddisfazione della sua vita che se accorse solo l’attimo di un respiro.
Andò dritto all’ovile senza nemmeno alzare
lo sguardo al cielo, che brillava come un dono.
Prese la pecora nera e senza badare al suo
belante pianto la portò su alla stalla. Quella stalla! Misera da aver vergogna!
Gli veniva male ogni volta che ci pensava.
Il tetto da rifare, la porta che non chiude bene, gli spifferi che fischiano
l’aria e quell’asino di un bue e quella vacca di un asino! Due preoccupazioni
in più nel triste rosario della sua vita.
Vi rinchiuse l’agnellino e senza degnare
nemmeno di uno sguardo quei due imbecilli di animali, se ne andò lasciando la
porta aperta.
Partì a testa bassa sbuffando come un toro
arrabbiato, partì convinto di camminare dalla parte sbagliata; la felicità è
dall’altra parte, pensava.
Partì col suo gregge, di nuovo tutto
bianco, senza macchia; ci mancava anche quella!
Tornò presto quel giorno, era troppo stanco
e stufo marcio.
C’era una strana luce nell’aria e pensò che
da qualche parte nel mondo vi era sicuramente un posto dove la luce era sempre
così; beati loro.
Si addormentò sognando nero.
I primi ad arrivare furono gli angeli
dell’est; leggeri, luminosi.
Al loro passaggio l’aria fresca della sera
si scaldò.
Poi arrivarono le schiere da oriente,
scintillanti in tutta la loro grandezza; meteore luminose dal sibilo armonioso.
Gioia pura al di là di ogni immaginazione!
Fruscii d’ali e polvere d’oro riempirono
l’aria.
Tutti i pastori coi loro armenti erano in
contemplazione di quel miracolo, erano nel posto giusto al momento giusto;
erano dov’erano sempre stati.
Alcuni angeli andarono da loro e gli
parlarono e loro capirono, come tutti quelli che sono capaci d’ascoltare col
cuore.
S’incamminarono su per la collina verso la
luce della stella cometa che quelle notti avevano tanto ammirato. Ora era così
vicina che si poteva toccare.
“Ma è la stalla di Zaccheo!” osservarono
appena furono arrivati.
La stalla sembrava una reggia e sul trono
di paglia un bimbo appena nato, riscaldato dagli animali di Zaccheo.
La pecorella nera se ne stava accovacciata
a godersi lo spettacolo.
Tutto l’ Amore del mondo era lì, in quella
notte, come in tutte le notti.
E Zaccheo?
Zaccheo dormiva.
Si alzò arrabbiato e di cattivo umore
all’idea di iniziare la giornata a correr dietro alle sue pecore in quel buco
di mondo dimenticato da dio.
S’incamminò a testa bassa, pensando a chi
poter vendere la sua stalla, ma era triste perché era convinto che nessuno,
nemmeno il più disperato pastore l’avrebbe voluta.
Se ne andò a testa bassa ignaro che la sua
vita, come la vita di ognuno, era perfetta, che i suoi piedi stavano in quel
momento, come in ogni istante, calpestando l’eternità, che ad ogni respiro
l’universo intero entrava nel suo cuore, ignaro di essere già in quell’altra
parte del mondo dove la vita non se ne sta di spalle, ma ti guarda in faccia e
sorride.