L’Orchestra da camera dei Serafini
resoconto, racconto, impressioni ed espressioni di un Angelo
Si era seduto al suo posto e aveva iniziato a far due
note, provando le ance.
Era stato chiamato come aggiunto all’”Orchestra da camera
dei Serafini” in qualità di secondo fagotto.
Quando l’orchestra fu schierata al completo, tra il
caotico preludiare degli strumenti sentì aleggiare nell’aria uno sgradevole,
persistente odore di merda.
Il suono dell’orchestra
si era spento all’arrivo del direttore stabile, un allampanato vecchietto dallo
sguardo severo.
Salito sul podio, prima ancora di salutare l’orchestra,
avvertito l’olezzo che impregnava la sala prove disse:
“Beh, sembra di essere già dentro al pezzo”
Infatti sul leggio avevano lo spartito della VI sinfonia
di Beethoven detta la “Pastorale”
Il fatto è che la sede dell’orchestra era situata in una
piazzetta dove i padroncini erano soliti portare i cani a passeggio e dove
questi lasciavano i loro ricordi tra i sassi che pavimentavano la piazza.
Per cui; vuoi la fretta, la mimetizzazione con il pavé,
il sovrappensiero, fatto sta che sotto le suole di qualche orchestrale giungeva
immancabilmente in sala prove un pezzo di merda.
La prova partì portando i musicisti fuori dalla sala,
dentro un altro mondo, dove la realtà si misura
con le emozioni.
All’intervallo il
nostro giovane aggiunto scambiò due parole con i colleghi usciti a fumarsi una
sigaretta mentre sfregavano le suole delle scarpe sul bordo del marciapiede.
“Ce l’hai già il frac?” gli chiese l’oboista
“No, non sapevo che bisognava suonare in frac” rispose
“Non preoccuparti, te lo procuro io”
“Va bene, grazie”
“Che taglia hai?... vediamo … si, ce l’ho”
l’ispettore chiamò
a raccolta l’orchestra, l’ora d’aria era finita, bisognava tornare in sala
prove dove l’odore non aveva nemmeno provato ad andarsene.
Il giorno dopo la prova si svolgeva nel tardo pomeriggio
e dato che era autunno inoltrato e la piazzetta poco illuminata, la possibilità
che qualcuno centrasse una merda era molto alta.
Tutti in seduti, come in mezzo a un campo concimato,
l’orchestra iniziò le prove.
Ad un certo punto il primo violino, per un motivo che il
nostro “aggiunto” non aveva colto, cominciò ad arrabbiarsi con la spalla dei
violoncelli.
“Basta!!” iniziò a gridare con uno sguardo assatanato
“Non è possibile suonare con dei dilettanti!”
“Modera le parole” rispose con calma il violoncellista,
abbozzando un sorriso serafico, che ben si addiceva ai ranghi dell’orchestra
dei Serafini.
Il primo violino, rosso dalla rabbia, si alzò sbraitando
tra lo sgomento dell’orchestra
“Io non ce la
faccio più!! Anni di studio, di sacrifici,
di concorsi vinti, onorificenze,
per suonare con un branco di falegnami! sembra che segate lo strumento!
segaioli!”
e alzato il suo famoso violino, da decine e decine di milioni
di lire, lo gettò a terra fracassandolo in mille pezzi.
Con un ghigno diabolico abbandonò la sua postazione e
s’incamminò verso l’uscita.
Nessuno parlava, il silenzio era totale … solo il ghigno del violinista, che continuava
anche dopo eseere sparito dalla vista.
Qualcuno piangeva e ad Angelo, il nostro aggiunto, il
cuore batteva più forte dei timpani.
Il ghigno, che riecheggiava nel silenzio e si fece più
forte quando dalla porta rientrò il primo violino con un altro strumento fra le
mani.
Indicando il nuovo strumento il ghigno di trasformò in
risata.
Avvicinandosi all’orchestra rideva e continuando ad indicare
lo strumento disse
“Questo è il mio violino!”
Il primo violoncello, che aveva fatto di spalla allo
scherzo, si unì al riso, mentre l’orchestra ammutolita cercava di capire
cos’era appena successo.
Quel mattacchione del primo violino si era procurato uno
strumento cinese da due soldi da scaraventare a terra per la spettacolo appena
andato in scena.
Il direttore, amico dei due individui, si unì alle risa e
pian piano la tensione si sciolse
lasciando nell’aria un acre odore di
merda.
Come di consueto Angelo arrivò mezz’ora prima dell’inizio
delle prove, voleva scaldare lo strumento, provare le ance, ripassare i passi
più delicati del programma, che prevedeva oltre alla VI sinfonia di Beethoven,
il primo concerto per pianoforte.
Mentre preludiava spostarono il pianoforte davanti
all’orchestra, ma nel muoverlo una gamba si era piegata. La sistemarono alla
bella e meglio perché il direttore era già sul trespolo pronto a sventolare la
sua bacchetta.
Tra il I e il II movimento compare in sala prove
l’ispettore con una cassetta degli attrezzi e si avvicina al pianoforte mentre
il direttore e il solista attaccano il “Largo” del II movimento.
Comportandosi come se la sala prove fosse vuota appoggia
la cassetta degli attrezzi e si inginocchia sotto al pianoforte come un
gommista e mentre la musica comincia a decollare nelle prime estatiche battute,
tira fuori il martello e inizia a
picchiare un chiodo alla gamba traballante del pianoforte.
Il solista si ferma stordito, come se il martello lo
avesse colpito in testa
“Ma cosa fa?” chiede arrabbiato
“Maestro” risponde l’ispettore “ a ognuno il suo lavoro”
“Ma lei è un maleducato” continua incredulo il pianista
“Se io non le aggiusto la gamba a sto piano, lei non solo
non decolla, ma non entra nemmeno in pista”
e giù altre martellate
A questo punto il pianista si alza e senza proferir
parola se ne va, mentre il martello insiste col chiodo fisso di chi crede di
aver ragione.
Quel giorno la prova fini così.
“Se corro riesco a
prendere il treno prima” pensò Angelo, mentre l’orchestra si dileguava
lasciando le prime battute del “Largo” volteggiare nell’aria insieme al tanfo
persistente della sala prove.
Il direttore, ormai verso l’ottantina, era a capo dell’Orchestra
dei Serafini da più di un lustro e tra un sinfonia e l’altra era riuscito ad
inimicarsi gran parte dell’orchestra. Un commento sarcastico qui, una smorfia
la, una parola di troppo, un sorriso di meno, lo sguardo sempre più altezzoso ,
il suo giudizio da uomo di dio, avevano fatto dimenticare alla maggior parte
degli orchestrali la sua bravura, che comunque non era eccelsa e forse proprio
per questo aveva bisogno di essere sostenuta da un atteggiamento arrogante e di autocompiacimento.
E così alle prove sembrava di stare su un ring.
“Clarinetto … alla battuta 26 faccia un piano”
“non c’è scritto maestro” rispondeva il primo clarinetto
“Ma lei lo farà”
“Come vuole maestro, ora lo segno”
“No!” si accendeva il direttore “Non segni nulla, lo
faccia e basta!” non voleva infatti che si segnasse sulle parti, perché erano
le sue parti personali e ciò che necessitava di essere scritto lo aveva già
scritto lui ad ognuno.
“Se non lo segno non me lo ricordo” continuò il
clarinettista, ben sapendo della suscettibilità del direttore nello scrive
sulle parti, e presa la matita scrisse il suo piano.
Il direttore incassa il colpo, ma risponde con un destro:
chiude la partitura e se ne va.
Il giorno dopo l’orchestra è sul piede di guerra.
Dopo pochi minuti di prova il direttore ferma l’orchestra
“Primo fagotto, lei entra sempre i ritardo”
“Non è colpa mia” risponde il fagottista e continua “devo
avere il tempo di girare la pagina. Suono con tutte due le mani io e devo toglierne una dallo strumento, portarla
al leggio, prendere il foglio, girarlo, riportare la mano allo strumento e
riprendere a soffiare. Ci vuole tempo”
Il direttore cerca di schivare il tiro mancino ma subisce
il colpo e prosegue.
Mentre il direttore è impegnato a studiare un passo con i
violini il nostro primo fagotto coglie l’occasione di spiegare ad Angelo, il
secondo fagotto, come lui eseguiva un trillo e inizia a suonarlo e risuonarlo
per farlo sentire al secondo fagotto, ma a sentirlo è tutta l’orchestra e il
direttore irritato si rivolge al
fagottista
“Ma allora! non sente che sto provando coi violini?”
“Maestro lo faccio per il suo bene” rilanciò il primo
fagotto
“Il mio bene!!” gridò il direttore colpito da un dritto
“Io me ne frego” continuò e alzati i pugni impugnò la
bacchetta
“Da capo” e dato l’attacco l’orchestra partì.
La lotta era ormai all’ultimo sangue, qualsiasi cosa
succedeva durante l’esecuzione il direttore tirava dritto senza fermarsi,
voleva dimostrare che a lui non gli fregava nulla di come usciva quella
sinfonia e l’orchestra allora faceva apposta a sbagliare. Il forte diventava
piano, e il piano forte. Le corone ad libitum soggettivo, lo staccato legato,
il legato così staccato da sembrare una mitragliatrice. Il povero Beethoven assisteva dal cielo a quella furente
esecuzione osservando l’impeto degli sguardi,
protetto dalla sua sordità.
Finalmente l’ultimo accordo mise fine a quella battaglia
dove non ci furono ne vincitori ne vinti, solo lo scempio di un capolavoro
massacrato e abbandonato sui leggi, che se ne rimasero nel buio di un sala vuota
in un silenzio che puzzava di merda.
Alla prova generale arrivò il frac di Angelo appallottolato
dentro a un sacchetto di plastica.
“Hai fatto un affare! sono 100 mila lire. Questo è un
frac che non trovi più”
“In che senso?” rispose Angelo
“Frac così al giorno d’oggi te li sogni. Questo ti dura
tutta la vita”
Angelo tolse il frac dal sacchetto e subito notò che era molto pesante
“E’di lana?”
“Ma non sudi te lo garantisco” replico prontamente
l’oboista commerciante
“La tasca interna è scucita” fece notare Angelo
“Una sarta con due lire te la sistema”
Angelo indossò il suo frac, il suo primo frac. Aveva le
code e questo gli bastava.
Diede i soldi all’oboista che non fece in tempo a
metterli in tasca che già proponeva ad Angelo una linea di detersivi per la
casa.
“Sono prodotti incredibili, vengono dalla Cina e li si
che le pulizie le sanno fare, mica come da noi che ti vendono prodotti che
costano un pacco di soldi perché sono biologici, biodegradabili, bionici, con i
fiori di campo, senza impatto ambientale e non testati su animali. Peccato che
non pulisco un cazzo!
Fidati, prova un mio candeggiante al cloro, ti sbianca
anche un negretto”
L’ispettore chiamo l’orchestra mettendo fine alla vendita
dell’oboista, che come imbonitore non sbagliava un passo.
La prova si svolse in un clima sufficientemente pastorale
e rilassato almeno durante la prima parte.
Dopo la pausa infatti, durante il IV movimento della
Sinfonia, nel pieno della “tempesta”, il direttore fermò improvvisamente
l’orchestra provocando un specie di colpo della frusta ai tromboni e alle
trombe che stavano andando a manetta. In un risucchio di polmoni
improvvisamente svuotati il direttore gridò furibondo a un violinista di fila
“Allora! la smette di tirarsi su il maglione che le cade dalle spalle mentre
suona? lo appoggi da qualche parte!”
Il violinista, trovandosi improvvisamente al centro della
scena, si alzò tronfio, deciso a non
perdere l’occasione di far vedere che lui era si un violino di fila ma
non era un coglione, anche lui aveva le palle per rispondere al direttore
“Il maglione è mio e lo metto dove voglio io. Se mi gira
lo metto anche in testa” e subito fece seguire alle parole i fatti e messosi il
maglione in testa si sedette, inforcò il violino pronto come non mai ad
affrontare i passi più difficili.
Che gli mettessero davanti anche la “Sinfonia delle alpi”
di Richard Strauss!
lui i passi li avrebbe superava tutti! non aveva paura!
e nemmeno freddo, il maglione se lo portava sempre sulle
spalle pronto per l’uso.
Il direttore, senza proferir parola chiuse la partitura e
se ne andò.
La prova generale era finita.
“Che culo, riusciamo a vedere la partita dall’inizio”
esclamò la prima tromba riponendo velocemente lo strumento nella custodia
Il secondo oboe aprì l’armadietto, di quelli che si usano
nelle palestre e vi infilò dentro lo strumento così com’era, senza pulirlo, smontarlo, con l’ancia inserita.
L’avrebbe ritrovato così bell’e e pronto per il giorno dopo.
Il giorno dopo era il giorno del concerto.
La sala dei concerti de”L’Orchestra dei Serafini” era
utilizzata anche come cinema.
Angelo arrivò
quando la proiezione pomeridiana del film in programma per quella settimana,
“Vita smeralda” un film di Jerry Calà, era appena terminata.
Dalle persone che vide uscire capì che la sala doveva
essere stata piena.
“Di gente ne viene in questo posto” pensò “Stasera
pienone”
Ma quella sera, quando uscì sul palco con il suo nuovo
frac di lana, che alla faccia dell’oboista lo faceva sudare come un pinguino
nel deserto, rimase meravigliato nel vedere che il pubblico non occupava
nemmeno metà delle poltrone.
E l’età media superava abbondantemente i 60.
“Suona forte” gli suggerì il primo fagotto quando si
furono seduti al loro posto “se no il pubblico non sente.
Sono un sordi. Settimana scorsa hanno cominciato a uscire
dalla sala mentre ancora stavamo suonando il finale dell’”Idillio di Sigfrido”.
La musica era così piano che non sentendo più niente hanno cominciato ad
applaudire, si sono alzati hanno messo i cappotti e se ne sono andati”
“Non ci posso credere” ribatté Angelo
“C’era un signore che cercava di fermarli, di dirgli che
non era finito, ma nessuno ha voluto credergli e così è rimasto solo lui a
godersi il finale in santa pace”
L’oboista lanciò il La in orchestra e i musicisti
iniziarono a prenderlo al volo.
Quando ogni orchestrale ebbe catturato il La nello
strumento, il silenzio arrivò come una folata di vento.
Accompagnato dal flebile applauso del pubblico entrò il
direttore … un inchino … giravolta …
bacchetta in pugno … sacro silenzio … e la magia iniziò a riempire l’aria, a
entrare nelle orecchie, nella testa, nei polmoni, nelle vene e senza scampo ad
impossessarsi del cuore.
L’ispettore, incantato, con la valigetta degli attrezzi
dimenticata in un angolo, ascoltava rapito da dietro le quinte. Il solista
iniziò a decollare con la gamba del pianoforte
salda e pronta all’atterraggio.
Il direttore guidava e si faceva guidare dall’orchestra,
che aveva cambiato voce, colore.
L’oboista commerciante suonava in maniera pulita come
nemmeno i suoi prodotti cinesi più efficaci, il violino della spalla cantava,
felice di essere ancora tra le mani del suo padrone burlone, i trilli dei
fagotti sembravano stelle, gli squilli delle trombe quelli degli angeli
serafini schierati ad osservar il firmamento.
Angelo si guardò intorno e vide volti felici di essere su
quell’astronave, che viaggiava a tutto volume, senza intoppi, nella galassia
della musica . Le rivalità, le antipatie, gli affanni, le preoccupazioni le
osservavano dall’alto, senza più coinvolgimento, presi com’erano a navigare tra
le costellazioni della musica.
Quel viaggio se lo erano guadagnato con una vita di studio, di sacrifici, di
cadute e forza nel rialzarsi, di delusioni, speranze, dedizione, costanza,
umiliazioni necessarie per andare avanti senza boria, quando l’orgoglio
cresceva con la bravura e invitava l’arroganza a salire sul palco con loro.
E ogni volta pagavano il biglietto con la concentrazione,
come un equilibrista che cammina su un filo e cerca di non cadere, ogni volta
ci mettevano la faccia e i più buoni il cuore.
La musica c’è solo nell’attimo in cui passa ed è in
quell’attimo che bisogna esserci.
E l’orchestra dei Serafini era lì, con i suoi difetti, le
sue frustrazioni, la sua misera umanità, i suoi dispiaceri e le sue meschinità,
ma c’era … era li nell’attimo della musica, e risplendeva , risuonava come una
stella nel buio e nel caos del rumore di un umanità che cerca solo di avere, di
possedere, di apparire.
L’astronave atterrò e poco importa se ad applaudirla ci
fossero solo pochi saggi vecchietti, quel che conta è che ancora una volta la
bellezza impalpabile, fugace, eterea della musica sia passata su questo pianeta
a ricordare all’uomo che si vive d’emozioni.