Mimetizzato il muso fra il
cespuglio di more, il giovane cerbiatto scrutava il prato che rotolava giù,
sino al fiume. Era la prima volta che usciva da solo, la prima volta che
avrebbe voluto essere una mora.
Il vento faceva le
capriole sul prato, trascinando con sé l’odore acre della sua paura.
“Il vento non smette di
giocare” pensò immobile dentro al cespuglio.
Rimase a imitare le more
aspettando che l’aria frenasse la sua corsa e smettesse di fischiare divertita.
Aveva sete e il bicchiere
pieno di paura.
Il fiume lontano
gorgogliava invitante, ma il coraggio del cerbiatto non arrivava così distante.
Spazzato dal vento il
pomeriggio volgeva al termine e le prime ombre della sera cominciavano ad
allungare le orme degli alberi.
Il freddo iniziò ad avvolgerlo
come un gelato ai frutti di bosco e prima che si sciogliesse in un lago di
paura, rinunciò ad andare ad abbeverarsi al fiume.
Sulla via del ritorno, con
la gola secca e il passo lento della delusione, incontrò una taccola che
tornava da un giro oltre il fiume.
Nel vedere lo sconforto
del cerbiatto si sentì in dovere di fermasi e gli chiese:
“Che ti è successo per
essere così triste?”
“La paura mi incatena le
zampe, mi toglie il piacere della libertà e mi secca la gola”
Rispose il cerbiatto intimorito da quell’uccello nero come un tassello della notte.
“La paura è l’arma che ti
salverà, devi solo saperla usare” sventolò la taccola.
“Ma la paura mi fa paura”
“Prendila con dolcezza,
accarezzala per calmarla e lasciala parlare”.
Un giravolta intorno al muso
del cerbiatto e riprese:
“Ti indicherà le strade ai
crocevia e ti porterà lontano dove,
stanca, si siederà a guardarti correre verso la vera felicità”
“La vera felicità?”
“Quella dove non hai più
paura, perché hai rinunciato a te stesso”.
Un colpo d’ali e sparì nel
buio della notte confondendosi con il nero, pieno di angoscia, o con il nulla,
libero dalla paura.
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