Viaggi fantastici, itinerari fantasiosi per bambini di ogni età, dentro e fuori dal fagotto
lunedì 31 dicembre 2012
domenica 23 dicembre 2012
SENZA NOME
Il silenzio è bianco; come la pace.
Quella notte aveva nevicato e la lana del
cielo aveva nascosto le mie pecore.
“Lassù deve essere estate perché stanno
buttando via la lana” pensai “ma non capisco perché è fredda”
Non bisogna farsi troppe domande diceva mio
nonno e nell’aria rimaneva il profumo delle sue parole tra gli sbuffi della
pipa.
Ho aperto la porta con gli occhi ancora
gonfi di sonno e le ciglia incrostate di sogni.
Accecato dalla neve ho creduto che Dio
avesse cancellato tutto. Ma poi ho visto il punto nero del mio cane e il foglio
bianco della vita riempirsi al suo abbaiare.
Quando non ho visto le mie pecore per un
attimo sono stato felice; felice all’idea di essere libero di starmene chiuso
in casa davanti al camino a pensare;
a pensare a niente.
Il sogno di quella notte aveva lasciato ben
chiare le impronte sulla neve del mattino, avevo paura di morire e trovarmi
davanti a un Santo con gli occhi come stelle e il sorriso come il sole che mi
chiede: “Allora?” perché se non lo sa lui vuol dire che dovevo saperlo io. Ma
sono stato felice solo il tempo
necessario per accorgermi che non lo ero. La neve aveva nascosto una
parte della mia vita e al pensiero di non ritrovarla, un brivido scosse il piedestallo
dove appoggio uno sopra l’altro gli anni che ho già passato.
Io non so come mi chiamo, tutti mi chiamano
“L’amico di Zaccaria”.
Ho perso il nome per sbaglio, mentre
cercavo di cancellare il ricordo di mia madre, perché ogni volta che aprivo un
armadio della mente ne usciva, tra i fazzoletti il suo profumo, la sua bontà
dal barattolo del miele e la sua
dolcezza dai ricami della mensola.
Avevo solo sette anni e non sapevo ancora
come si fa a dimenticare, così ho finito per scordare anche il mio nome.
Me se ora riesco a ricordarmi queste cose,
senza che il maltempo della vita mi sconquassi il cuore e mi bagni gli occhi, è
perché quella mattina soffiava un vento capace di entrarti nell’anima e
togliervi la polvere.
Ho seguito il mio cane su per la collina
correndo con la stessa fatica che si fa nei sogni. Ma il gelo mi pizzicava le
guance, sentivo forte il tamburo del mio cuore e vedevo i segnali di fumo che
dalla bocca mi uscivano per avvisarmi che ero vivo.
Ho cercato le mie pecore faticosamente per lungo tempo, ma non è
servito a nulla, se non per respirare quell’aria stranamente luminosa e
assistere ad un volo d’angeli.
Seguivano la linea rossa dell’orizzonte
infuocato dall’alba e cantavano.
Sarà stato quel canto, la scia blu dei loro
occhi o il loro sorriso che svita il bullone della sofferenza, ma è stato come
aprire gli occhi per la prima volta.
Ho sentito sciogliersi dentro di me il
gelato alla fragola dei mie desideri, ho udito il tonfo dei sassi che
nascondevo nel cuore, ed eccomi lì; con la bocca aperta a respirar scintille di
luce divina senza ricordare chi ero.
Senza ricordarmi che il giorno prima avevo
scavato nell’orto una buca per nascondere il mio denaro, credendo così di
piantare una radice capace di ancorarmi al mondo e pensando di aver raggiunto
una casella importante al giro dell’oca della vita.
Senza ricordare che avevo smarrito le
pecore.
Non ricordavo dove tenevo la marmellata di
castagne, dove avevo appoggiato il piffero magico delle mie canzoni. Non
ricordavo più la differenza tra la neve e le mie pecore, cosa andavo cercando e
perché. Ero felice di non accorgermi di me.
Ero riuscito, grazie al vento della corsa
degli angeli, a togliere dalla mia testa il punto in cui la trottola del mondo
pensavo girasse e mi sono reso conto così che alla mattina quando aprivo gli
occhi in realtà li chiudevo. Creavo il mio sogno e utilizzavo tutto per cercare
di renderlo più tranquillo, meno difficile da immaginare.
Da allora, alla fine della giornata, mi
domando se sono riuscito ad ascoltare il canto degli uccellini, la recita del
fiume, se ho guardato i disegni delle
nuvole e salutato il vento che le spinge o le lascia galleggiare sino al
tramonto, se ho scambiato un sorriso col sole , apprezzato il colore di un
fiore ed il suo profumo.
Io non so come mi chiamo … e questo
comincia a piacermi sempre di più, come l’idea di diventare una scia luminosa
lungo la linea rossa dell’orizzonte infuocato dall’alba.
giovedì 20 dicembre 2012
VOLO D' ANGELO
Stavo
bucando le nuvole con i tacchi a stella dei miei stivali per liberare la neve,
quando mi vennero a chiamare perché avevano bisogno d’una mano per spostare il
Capricorno.
Non
è facile spostare le stelle, bisogna crederci, ma è necessario per far girare
il mondo.
Siamo
angeli perché riusciamo ad accendere le stelle in una notte; a farle brillare
d’Amore.
Mentre
volteggiavo nel cielo per raggiungere il Capricorno mi venne in mente la prima
volta che mi tuffai nel cielo.
“Ora
se vuoi puoi diventare un angelo, vola!” mi disse una voce che non avevo mai
sentito ma che conoscevo.
Ero
lì, tremante e impaurito. Nudo, senza una nuvola di fico a coprire la saetta
dei miei temporali, senza ali, a chiedermi che razza di storia fosse mai quella
e poi non avevo nemmeno il portafoglio, la carta d’identità, un ciondolo, una
foto, una caramella, niente.
Mi
guardavo intorno per cercare una scala, una corda, qualcosa che mi salvasse la
vita.
Aggrappato
con le dita dei piedi al fumo di una nuvola, mi rifiutavo anche solo di pensare
di lasciarmi andare e quello che sarà, sarà.
Non
sono stupido gridai e allora ebbi più freddo.
“Se
pensi di salvarti la vita la perderai” ritornò a parlare la voce e per un
attimo riuscii a guardare dentro di me e vidi che c’era un filo, sottile ma
luminoso ed ebbi caldo, si alzò il sole di un sorriso e mi tuffai aggrappato a
quel filo … e volai … senza ali, senza più paura.
Vedevo
i sentieri fra le nuvole, annusavo il profumo delle stelle e mi lanciavo tra i
colori del cielo ai margini delle giornate e mi si tingeva l’anima come un
fiore.
Da
allora sono in ogni cosa ed ogni cosa è in me.
Ma
guarda te mi dicevo, e io che piangevo perché non avevo la caramella!
venerdì 14 dicembre 2012
BOTTO DI FAGOTTO
Gli capitava di passare ore prima di riuscire a spiccare il volo, perché le sue teste non riuscivano a mettersi d’accordo su dove andare. Era uno zuccone e nessuna delle sue teste voleva cedere, così era più il tempo che pensava a cosa fare che quello che passava a fare cose.
Abitava in due nidi diversi per accontentare tutte e due le teste, uno era nella scogliera e l’altro tra le cime innevate. Insomma il povero Artamihr non era quello che si dice un drago sereno.
Un giorno se ne stava immobile con una testa ad osservare il tramonto e l’altra a guardare dall’altra parte, dove la luna già faceva innamorare, quando un suono lo catturò.
Era una suono nuovo, che mai aveva udito, era dolce come una carezza e penetrante come un pugno, era forte ma docile. Le sue teste si girarono all’unisono verso quel suono che con la sua duplicità le incantava entrambe. Una testa ne coglieva la gaiezza, l’altra la tristezza e Artamihr si ritrovò per la prima volta con le sue teste catturate dalla stessa cosa.
Quel suono intanto si ripeteva, modulando impercettibilmente e ipnotizzandolo lentamente.
Cominciò a muoversi piano, con calma si alzò dal suo nido e senza accorgersi spiccò il volo guidato da quell’irresistibile suono e seguendone le vibrazioni atterrò sulla spiaggia, dove ad attenderlo v’era Lancillotto che suonava il suo fagotto.
La melodia continuava ad incantare Artamihr. Immobile lasciava che quella musica lo avvolgesse e si ritrovò presto dentro ad una sfera vibrante.
Fu allora che Lancillotto riuscì ad armonizzare le due teste del drago, che al risveglio da quell’incantesimo si ritrovarono d’accordo nel riconoscerlo come unico padrone.
Passarono comunque mesi prima che Lancillotto, a furia di suonare melodie con il suo fagotto, riuscisse a convincere il drago a portarlo a spasso fra le nuvole.
Divennero infine inseparabili amici.
Un giorno Artamihr chiese di poter provare a suonare il fagotto che tanto lo faceva impazzire.
“Il problema è il fiato” spiegò Lancillotto al suo nuovo allievo “devi imparare a soffiare senza sputare fuoco”
“Bel problema” rispose il drago
“Ma vediamo cosa si può fare” disse speranzoso Lancillotto.
Tre giorni dopo consegnò ad Artamihr il metodo sul quale avrebbe cercato di insegnargli a suonare il fagotto dal titolo: FIATO PESANTE, rutti e gargarismi per draghi aspiranti fagottisti. Metodo che il drago lesse e bruciò in un fiato.
Era l’ultimo giorno dell’anno quando Artamihr volò sulla superficie del mare e spalancata la bocca bevve litri e litri d’acqua, al punto da non riuscire quasi più a mantenersi in volo.
“Ho le caldaie piene d’acqua, presto!” gridò a Lancillotto appena lo ebbe raggiunto.
Lancillotto allora gli porse il fagotto ed Artamihr emise il suo primo suono.
Fu una specie di rutto da temporale, lungo e profondo che sollevò le onde e abbatté uno stormo di cormorani. Il silenzio che seguì puzzava di bruciato, le ance del fagotto avevano iniziato a carbonizzarsi.
Lancillotto sorrise e da allora, ogni 31 dicembre a mezzanotte, se state in silenzio, potete sentire un temporale lontano della durata di un rutto; è Artamihr, il drago a due teste, che suona il suo fagotto come un botto, bruciando le ance.
Ancia di Artamihr |
martedì 11 dicembre 2012
IL BUE
Alla sera,
quando rientravo nella stalla,
il mio padrone accarezzandomi mi diceva:
“Bravo,
bravo il mio Tristano” e lì, al caldo, con tutto quel fieno profumato, mentre
fuori sotto il cielo stellato le allodole tenevano il loro concerto con i gufi
e il barbagianni, io mi sentivo felice; felice di essere un bue.
Ho sempre
fatto fatica a capire perché gli altri buoi e le altre mucche si lamentassero
in continuazione: “Poveri noi!” erano solite ripetere “Ma che vita sarà mai la
nostra, sempre le solite cose, il solito prato, il solito fieno, muuh! Che
noia!”e masticavano di malavoglia.
Io le
ascoltavo e non capivo: l’erba era così fresca, tenera, così buona! E quel
vento! Quanti profumi!
IN
PRIMAVERA ogni giorno era una festa, mille fiori nuovi a colorare i prati e il
cielo, sì perché ogni tanto qualche fiore riusciva a staccarsi dal gambo e si
metteva a volare davanti al mio muso.
“Sono farfalle”
diceva senza entusiasmo la mucca Carolina. E allora? Che differenza fa, è
comunque fantastico, e inseguivo stupito quei fiori con le ali.
Poi arriva L’ESTATE,
le lunghe giornate all’ombra delle querce, il profumo della terra bagnata dopo
un temporale e le calde sere al canto dei grilli.
“Che
palle!” si lamentava la mucca Carolina “non hanno niente di meglio da fare?”.
IN AUTUNNO
osservavo le foglie che lentamente si cambiavano d’abito, mettevano il loro
vestito migliore come per andare ad una festa e in silenzio le vedevo partire,
staccarsi dai loro rami e volare come delle farfalle.
La prima
volta che la vidi sono rimasto immobile a fissarla come un bue di pietra.
Quella
leggerezza schiacciata da tutto quel peso! Eppure lei non si lamentava, con i
suoi occhi dolci proseguiva lentamente sul sentiero al di la del pascolo.
Mi sembrava
una farfalla che non riesce a volare da tanto peso gli hanno caricato.
Si chiamava
Brunilde ed era un asinella.
Era scesa
la neve quella notte, L’INVERNO era arrivato: aveva aperto le sue valigie piene
di neve e ghiaccio. Si era distesa sui campi a riposare e, dopo aver tappato la
bocca ai pettirossi, si era rimboccato la sua coperta di brina.
Io me ne
stavo al caldo della mia stalla quando, guardando fuori dalla finestra, la
rividi.
Se ne
andava sola col suo carico e le impronte dei suoi passi sembravano scrivere,
sulla lavagna bianca dell’inverno, una poesia.
Sono uscito
dalla stalla e ho cominciato a seguirla, a ricalcare le sue impronte lasciate
sulla neve; e ho letto la sua poesia.
Parlava
d’Amore, di accettazione, di stupore.
L’ho
raggiunta in una vecchia stalla. L’inverno è sempre stato di poche parole e
così in silenzio ci siamo guardati. Arrivavamo tutti e due dalla stessa poesia
e siamo diventati grandi amici.
Eravamo lì
ad ascoltare il meraviglioso silenzio dell’inverno, quando un bagliore ci
stupì. Alzammo lo sguardo e, come se arrivassero da quella luce, una donna e
suo marito entrarono nella mangiatoia.
La donna
era incinta e l’uomo le preparò in fretta, con la paglia, un giaciglio.
Lei si distese
esausta e lì, fra un bue e un asinello, diede alla Luce un bel maschietto.
Il padre ci
avvicinò alla donna e al bambino per riscaldarli, ma appena ci avvicinammo un
meraviglioso calore ci avvolse; quel bambino emanava Amore e i nostri cuori ne
furono subito riscaldati.
Rimanemmo
lì per tutta la notte, ma avremmo potuto rimanere per tutta la vita.
Sono
arrivati in tanti attratti dalla Luce d’Amore di quel bambino e tutti lo
salutavano con rispetto.
Quando fu
l’ora di partire, quel Bimbo d’Amore ci guardò e in quello sguardo trovai la
risposta che sempre avevo saputo; che era meravigliosa la mia vita, era
fantastico essere un bue.
domenica 2 dicembre 2012
Fagotto Pinocchio
C’era una volta un albero.
Era nato nella foresta, proprio nel prato dove si riuniscono
le streghe per il sabba del plenilunio e lì aveva messo radici.
Da piccolo giocava a braccio di ferro col vento.
Da adulto preferiva dare ascolto agli usignoli che,
a spasso nel cielo, trovavano in lui una pausa, un punto di ristoro, un attimo
per raccontarsi tutte le cose che durante il volo non riuscivano a dirsi: cose
da far tremar le foglie.
Gli piaceva sentirli cantare le meraviglie che
vedevano dalle nuvole, dei giri del vento e delle scorciatoie degli angeli.
Era riparo per tutti gli uccelli che tra i
crocicchi dei suoi rami avevano costruito la loro casa.
La mattina
alle cinque era come essere alla piazza del mercato, tutti che cantavano di gioia davanti
alla vita che s’illuminava.
Da vecchio governò la sua irruenza col tronco fortemente
ancorato alle radici. Non ballava solo perché si era deciso diversamente, ma se
solo avesse avuto l’opportunità di esibirsi in un passo di danza, avrebbe fatto
rimanere a bocca aperta anche le farfalle.
Aveva cento rami, mille e mille foglie da crescere,
lasciar morire e veder rinascere.
Aveva mille storie per tutte le direzioni del
vento, mille strade per tutte le formiche in vacanza sui suoi rami, mille decorazioni
create dagli aghi di bruco e dai ragni ricamatori.
Sulla pelle della corteccia aveva mille rughe,
solcate da file di formiche e punteggiate da api indaffarate. Sul tronco portava
il segno di qualche tatuaggio con cuore e frecce, nomi di amori trascorsi al
fresco delle sue fronde.
Poi un giorno tutto ciò venne abbattuto a colpi di
scure.
Una parte di tronco finì fra le mani di un certo mastro
Ciliegia, che dopo aver capito di trovarsi davanti ad un legno assolutamente
non comune si spaventerà e lo regalerà a mastro Geppetto pensando di fargli un
dispetto.
Mastro Geppetto invece ne farà un burattino che
chiamerà Pinocchio e che guarda un po’ parlerà.
La Fata Turchina faceva un sacco di magie e fra queste
vi era anche quella di suonare il fagotto. Quando incontrerà Pinocchio, gli
regalerà un fagotto costruito con il legno dello stesso albero con cui mastro
Geppetto aveva costruito il suo burattino. Gli insegnerà a suonarlo con molta passione
e tanta pazienza. (Così tanta che l’avrebbe sicuramente finita se non fosse
stata una fata).
Note corte per nasi lunghi, metodo per fagottisti con la testa di legno.
Non potete immaginare la gioia di Pinocchio quando
finalmente strimpellò la sua prima melodia! Tutta la vita del vecchio albero risuonò
in quella musica. Nel cuore di Pinocchio, quei suoni rimbombarono come tuoni.
Pinocchio vivrà così tante emozioni attraverso il
suo fagotto che riuscirà a trasformarsi in un bambino in carne ed ossa.
Un sentito ringraziamento alla fata Turchina e al
tocco magico dell’umile Geppetto.
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