Viaggi fantastici, itinerari fantasiosi per bambini di ogni età, dentro e fuori dal fagotto
domenica 30 agosto 2020
venerdì 21 agosto 2020
domenica 16 agosto 2020
F.A. VALLOTTI Fiant aures tuae (from De profundis)
La sua famiglia era così povera da non potergli garantire
un’educazione.
Ma il ragazzo aveva
negli occhi la fiamma del sapere che chiede l’alimento dello
studio, richiesta che i genitori non riuscirono ad ignorare. Grazie
alla generosità di conoscenti, poterono farlo entrare in seminario.
Francesco iniziò così a nutrirsi di conoscenza ed imparò l’arte
della musica, dove si contraddistinse per una prorompente passione.
Uscito dal seminario si recò a Chambéry per divenire “frate della
corda” abbracciando la regola di San Francesco. Vi rimase tre anni,
poi di nuovo a Vercelli, la sua città natale. A Milano terminò gli
studi di teologia, a quell’epoca aveva venticinque anni, con la
vocazione per la musica che, arrampicatasi alla corda del saio,
bivaccava nel suo cuore. I suoi superiori, colpiti dalla passione che
il ragazzo seminava nel suo incedere e che cercava di non calpestare
camminando in silenzio, lo affidarono alle cure di padre Calegari a
Padova. Cure che lo guarirono da ogni dubbio riguardo al suo talento.
Divenne compositore e organista nella chiesa di Sant’Antonio, dove
lasciava i fedeli a bocca aperta, con grande invidia dei sacerdoti,
che riuscivano con le loro omelie a far aprire le bocche solo per
sbadigliare.
Giuseppe Tartini,
celebre violinista con il trillo del diavolo in corpo, lontano
dall’acqua santa lo ascoltava con grande ammirazione,
considerandolo il più grande organista del suo tempo.
Charles Burney,
organista e storico della musica inglese, di passaggio a Padova, dopo
aver chiuso la bocca all’ultimo accordo, volle conoscere quel
diavolo d’un frate che suonava nella casa di Nostro Signore.
Francesco lo
raggiunse sorridendo, con l’eco della musica che ballava fra le
pieghe del saio.
Quando Burney uscì
dalla chiesa, il sole illuminò la bontà che quel musicista gli
aveva appiccicato addosso.
“Non si può
conoscerlo senza amarlo” disse poi a chi gli chiedeva di quel
Francesco Antonio Vallotti che a Padova lanciava, con le canne
dell’organo, l’esca della musica a cui tutti abboccavano.
Aveva ottantatré
anni quando smise di pescare lo stupore dalle acque
dell’indifferenza.
Era il 10 gennaio
del 1780 e l’acqua era ghiacciata.
sabato 8 agosto 2020
J.J. Quantz CAPRICCIO
Sulla carrozza che
sfrecciava nelle via di Napoli, Johann ripensava alla sua vita. Inseguito dal marito della
sua amante scappava alla morte, che ancora una volta lo aveva adocchiato.Sballonzolato dalle buche
della paura, col cuore che saltava in petto, ricordò l’incendio che qualche
anno prima ridusse in cenere la piccola città vicino a Dresda dove campava
suonando alle feste di paese. Pensò alla fuga dalla morte che quella volta
cercava di lambirlo con abbracci infuocati.Ricordò quando, a soli
dieci anni, si ritrovò orfano.Rammentò il silenzio che
lo avvolse nella sua coperta bianca, quando, nell’officina di fabbro del padre,
il martello smise di battere il tempo della felicità.Seguendo la scintilla
della musica, che brillava nella sua anima, sprigionata dal maglio che batteva
sull’incudine della passione, andò dallo zio musicista che lo tenne con sé
cibandolo di pane e musica. Ma ancora una volta la morte lo sfiorò portandosi
via lo zio dopo soli tre mesi.Quando il sole si svegliò
stirandosi in raggi luminosi, Johann tirò un sospiro di sollievo vedendo che
nessuno più lo inseguiva.Ancora una volta era
riuscito a scappare alla morte.Johann Joachim Quantz,
nato nel 1697 a quel tempo era al servizio del re di Polonia in qualità di
flautista e compositore di corte.La regina di Prussia
quando lo sentì suonare ne rimase così affascinata che pensò di non poter più
fare a meno di quel pifferaio magico, e gli offrì un lauto compenso affinché
rimanesse nel suo castello ad incantarla con la sua musica.Ma il re suo padrone non
lo permise, tenendo quel gioiello prezioso fra i tesori della corona. Concesse però
che Johann si recasse una volta all’anno ad impartire lezioni di flauto a
Federico, il principe reale.Federico era un giovane
sensibile, appassionato di musica e aspettava l’arrivo di Quantz con la stessa
sete che ha una pianta nel deserto.Quando divenne Federico II
re di Prussia lo volle a corte disposto a pagarlo 2000 talleri contro gli 800 che Federico Augusto,
successore del re di Polonia gli offriva.Fu così che Johann divenne
il musicista più pagato dell’epoca, considerando anche che il re remunerava
ogni sua composizione a parte, con moneta sonante.Quando Federico II
lasciava il castello, insieme ai bauli portava con sé anche il suo
clavicembalo, suonato dal quinto dei venti figli di Bach, Carl Philipp Emanuel
ed il suo Johann, coi quali passava le serate ad appendere arazzi d’armonie
intrecciati con la musica, nei salotti dei nobili.Quantz era l’unico che
poteva applaudire ai concerti del re e la sua musica l’unica che poteva essere
eseguita a corte, oltre ovviamente a quella di Federico II.Musiche clandestine, fra
le quali quelle di Carl Philipp Emanuel Bach, risuonavano in segreto nelle
cantine, facendo vibrare le fondamenta del castello.Il 13 luglio del 1773 lo
strepitio di una carrozza risuonò tra le vie di Postdam.Il suono veloce delle
ruote, accompagnato dai nitriti dei cavalli, si avvicinava sempre più.Johann fermò il passo
allungato verso il domani e in silenzio chiuse gli occhi, lasciando che la
morte, svoltato l’angolo nella sua carrozza
che arrivava da Napoli, lo investisse. Aveva settantasei anni e riempito
le stanze della musica con i meravigliosi arazzi delle sue composizioni.Tutto questo per invitarvi
ad ascoltare un suo capriccio per fagotto solo, un piccolo intreccio
nell’immensità della sua produzione, che ho registrato durante i mesi di
reclusione con l’accusa di favoreggiamento.
martedì 4 agosto 2020
NONNO
Il
nonno aveva una bicicletta dal colore indefinito di legno di betulla
sbiadito dal tempo.
Sulla
canna chiudeva la sua borsa di cuoio con dentro matite rosse da
muratore, doppiometro, cazzuola e frattazzo.
Pedalava
con calma. Una catena di silenzi o di poche parole e mai inutili.
Sulla
bicicletta aveva portato sua moglie in ospedale a partorire, era
andato fino in città con sua figlia a comprare la fisarmonica.
Il
nonno, un cavaliere con la bicicletta.
Alto
e di bell’aspetto, un aristocratico della bontà.
Non
aveva la patente, ma un attestato per viaggiare nel cuore delle
persone. Arrivava col sorriso beato di chi non conosce la cattiveria.
Sono
stato sulla canna di quella bicicletta, dove ho conosciuto la calma e
misurato le distanze col fiato corto del nonno.
A
cavalcioni sul portapacchi portava a spasso la serenità.
Con
la sua bicicletta ha oltrepassato il confine del tempo e ancora oggi
capita di vederlo passare sorridente, sulla discesa che regala la
salita di chilometri d’amore.
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