domenica 27 gennaio 2013

Il fagottista pescatore





Sul suo biglietto da visita si leggeva:
Edalberto, pescatore di trote marmorate, fagottista.
Sì perché Edalberto era un pescatore che suonava il fagotto.
Faceva le ance con le vecchie canne da pesca di bambù, con le quali aveva passato ore indimenticabili in mezzo ai fiumi; a respirare la vita, ad ascoltare i suoni armoniosi della natura.
Con quelle ance suonava il fagotto, cercando la stessa armonia che ascoltava lungo i fiumi.

Un giorno un’idea abboccò all’amo della sua fantasia:
“Potrei pescare con il fagotto!”
E, preso il suo strumento, iniziò a suonare.
Si era messo in testa che i pesci, ascoltando la sua musica si sarebbero messi a danzare saltando sulla riva.
Dopo un primo tentativo fallito, provò con un nuovo pezzo.
Ma dal fiume nemmeno un pesce saltò sulla riva a ballare.
“Niente da fare, si vede che i pesci oltre ad essere muti sono anche sordi” pensò e riposto il fagotto riprese la sua canna da pesca.

Finalmente un pesce abboccò.
Lo posò a terra e osservandolo dar gli ultimi guizzi esclamò:
“Ora che non c’è musica balla!” rifletté un attimo e continuò “Mi sa che dovrò ascoltare ancora a lungo e con molta attenzione le melodie della natura se voglio far ballare i pesci con la mia musica” e rimasto  in silenzio ascoltò l’inimitabile melodia del sole che tramonta.

Edalberto si mise in ascolto attentamente e per così tanti anni, che alla fine smise di voler far saltare i pesci sulla riva.
Non solo, ma smise di suonare e persino di pescare.
Si limitò ad osservare ed ascoltare e scoprì di essere stato sino ad allora un pesce che abboccava all’amo della sua stessa canna.


mercoledì 2 gennaio 2013


ERODE




Sulle torri del suo castello si riposavano i grifoni di ritorno dalla guerra, con gli artigli ancora insanguinati e negli occhi le immagini terrificanti della battaglia.
Tra le travi secolari del mastio dormivano a grappoli i pipistrelli, con il sangue alla testa e i sogni al contrario.
Giù ai bordi del fossato, le salamandre s’immergevano nell’acqua scura e sul fondo melmoso affogavano i raggi del sole.
Tra fredde pareti grigie, su un trono di pietra, stava il re.
Aveva un sorriso che spaventava, mani dure che non riuscivano ad accarezzare ed un nome da pronunciare con riverente timore: Erode.
Quel giorno il re si era svegliato molto più nervoso del solito. Aveva sognato un bambino che mangiava i pipistrelli come uva, giocava con le salamandre e puliva gli artigli ai grifoni rendendoli docili come colombe.
Durante il sogno il piccolo si era voltato e aveva fissato negli occhi il re;
e  quello sguardo Erode non riusciva più a spegnerlo. Gli era rimasto nella testa come un moccolo, a illuminare la  paura.
L’aurora lo sorprese sul cammino di ronda a guardarsi intorno come se qualcuno lo seguisse, come se da qualche parte, nascosto chissà dove, un uomo o forse un dio lo stesse prendendo di mira puntandogli una freccia.
Il crepuscolo se ne andò lasciando il re nascosto nella bertesca a spiare le pieghe del deserto.
Arrivò la notte che solerte iniziò a spegnere i colori, a calmare i rumori  e quando tutto fu pronto comparve nel cielo la stella più grande e luminosa che l’occhio potesse vedere e il pensiero immaginare.
Tutti gli sguardi si alzarono verso il cielo, perché lo spettacolo quella notte era lì e della terra nessuno più se ne curava.
Il cocchio dorato lentamente attraversò il firmamento trascinando dietro a sé i pensieri di tutti coloro che quella notte erano lì nel mondo col naso per aria.
Solo quando la stella sparì, l’incantesimo si ruppe, lasciando ognuno libero di pensare ad altro. Ma tutti si ritrovarono a pensare alla stessa cosa: alla loro improvvisa solitudine.

Erode aveva un drago nascosto nelle segrete del castello.
Un drago che gli proteggeva lo scettro e la corona; ma non il cuore.
Si ritrovò seduto per terra con le mani nude a sentire il gelo della pietra che come una lapide gli ricordava il confine oltre il quale né la corona né lo scettro hanno potere.

Arrivarono verso il vespero col vento caldo del deserto, carichi d’oro, incenso e mirra.
Arrivarono con calma.
Tutti, giù al paese, richiamati dal loro silenzio si erano affacciati alle finestre per guardarli passare.
La cometa li precedeva tirandoli con un filo invisibile.

Dietro ai merletti della torre più alta Erode li spiava, come un ladro che teme di essere stato scoperto, come un re che ha paura di perdere la corona.
Alzando gli occhi al cielo vide per la prima volta quella stella così spudorata nella sua bellezza e il cuore cominciò ad agitarsi per paura di non essere capace di conquistarla. Ma quel pensiero non riuscì ad uscire alla scoperto e intrappolato nella prigione della sua mente cominciò a gridare senza suono provocandogli un fastidioso mal di testa.
Il re pensò che non c’era più un posto dove poter nascondersi e che non avrebbe più potuto sentirsi invincibile.
“Ma per tutti gli dei !” imprecò e girandosi di scatto, seguito in un passo di danza dal suo mantello, andò incontro a quei tre forestieri che avevano l’aria di essere a casa loro.

Li ricevette seduto sul suo trono di re, con la corona calcata sulla testa così forte da fargli male “Come un serto di spine” pensò e si meravigliò di aver fatto quel paragone.
Si meravigliò ancor di più quando gli parlarono di un bambino.
“Ma come ?!” si spaventò e rivide ancora una volta lo sguardo di quell’ infante nel sogno: amico delle salamandre, capace di digerire pipistrelli e di addomesticare i grifoni.
“Fatemi sapere” li congedò e quell’ordine risuonò fra le fredde pareti come un il capriccio di un bambino.
Rimase immobile a guardarli mentre se ne andavano con le loro lunghe vesti di seta, che accarezzavano il pavimento dandogli un po’ di calore.
Appena quei tre Magi furono fuori dal suo castello il re lanciò un grido lacerante che fece volare via i grifoni, svegliare i pipistrelli e sorridere il drago.


Poi arrivò la notte insonne.
Nessuno in paese riusciva a dormire e tutti si ritrovarono per le strade illuminate d’oro dalla stella.
Tutti tacevano.
Strane luci comparivano nel cielo e scomparivano nel nulla, come suoni cristallini di arpe celesti e l’aria profumava di gelsomino, incenso e mirra.
Lontano il castello di Erode rimaneva muto e tetro, arroccato sulla roccia sembrava uno spettro.
Ma fra i pertugi della torre più alta il re osservava sudato quella notte prodigiosa, mentre le salamandre che aveva nel petto resistevano all’incendio del suo cuore e gli occhi gli si riempivano di sangue.
Da quella notte cominciò a vedere tutto rosso.
Non riuscì più a distinguere il colore del sangue da quello dell’acqua e quel che è peggio, col tempo non riuscì più nemmeno a distinguerne il sapore.
Cominciò ad avere una sete inestinguibile che gli bruciava l’anima.
Cercò conforto in tutte le sorgenti  del suo regno, ma ormai il cuneo oscuro che aveva adombrato il suo cuore si era allargato in un eclissi senza più luce e poi …

E poi bambini innocenti, mai stati nel suo sogno, bevuti senza pietà.

Le salamandre non erano più risalite dalla melma, i pipistrelli mai più risvegliati dal sogno e i grifoni spariti da tempo … tutto bevuto.
Tutto bevuto per lasciare finalmente vuoto il bicchiere.
Tutto bevuto per una nuova possibilità: riempirlo con il giusto sapore.