domenica 23 dicembre 2012

SENZA NOME


Il silenzio è bianco; come la pace.
Quella notte aveva nevicato e la lana del cielo aveva nascosto le mie pecore.
“Lassù deve essere estate perché stanno buttando via la lana” pensai “ma non capisco perché è fredda”
Non bisogna farsi troppe domande diceva mio nonno e nell’aria rimaneva il profumo delle sue parole tra gli sbuffi della pipa.
Ho aperto la porta con gli occhi ancora gonfi di sonno e le ciglia incrostate di sogni.
Accecato dalla neve ho creduto che Dio avesse cancellato tutto. Ma poi ho visto il punto nero del mio cane e il foglio bianco della vita riempirsi al suo abbaiare.
Quando non ho visto le mie pecore per un attimo sono stato felice; felice all’idea di essere libero di starmene chiuso in casa davanti al camino a pensare;
a pensare a niente.
Il sogno di quella notte aveva lasciato ben chiare le impronte sulla neve del mattino, avevo paura di morire e trovarmi davanti a un Santo con gli occhi come stelle e il sorriso come il sole che mi chiede: “Allora?” perché se non lo sa lui vuol dire che dovevo saperlo io. Ma sono stato felice solo il tempo  necessario per accorgermi che non lo ero. La neve aveva nascosto una parte della mia vita e al pensiero di non ritrovarla, un brivido scosse il piedestallo dove appoggio uno sopra l’altro gli anni che ho già passato.
Io non so come mi chiamo, tutti mi chiamano “L’amico di Zaccaria”.
Ho perso il nome per sbaglio, mentre cercavo di cancellare il ricordo di mia madre, perché ogni volta che aprivo un armadio della mente ne usciva, tra i fazzoletti il suo profumo, la sua bontà dal  barattolo del miele e la sua dolcezza dai ricami della mensola.
Avevo solo sette anni e non sapevo ancora come si fa a dimenticare, così ho finito per scordare anche il mio nome.
Me se ora riesco a ricordarmi queste cose, senza che il maltempo della vita mi sconquassi il cuore e mi bagni gli occhi, è perché quella mattina soffiava un vento capace di entrarti nell’anima e togliervi la polvere.
Ho seguito il mio cane su per la collina correndo con la stessa fatica che si fa nei sogni. Ma il gelo mi pizzicava le guance, sentivo forte il tamburo del mio cuore e vedevo i segnali di fumo che dalla bocca mi uscivano per avvisarmi che ero vivo.
Ho cercato le mie pecore  faticosamente per lungo tempo, ma non è servito a nulla, se non per respirare quell’aria stranamente luminosa e assistere ad un volo d’angeli.
Seguivano la linea rossa dell’orizzonte infuocato dall’alba e cantavano.
Sarà stato quel canto, la scia blu dei loro occhi o il loro sorriso che svita il bullone della sofferenza, ma è stato come aprire gli occhi per la prima volta.
Ho sentito sciogliersi dentro di me il gelato alla fragola dei mie desideri, ho udito il tonfo dei sassi che nascondevo nel cuore, ed eccomi lì; con la bocca aperta a respirar scintille di luce divina senza ricordare chi ero.
Senza ricordarmi che il giorno prima avevo scavato nell’orto una buca per nascondere il mio denaro, credendo così di piantare una radice capace di ancorarmi al mondo e pensando di aver raggiunto una casella importante al giro dell’oca della vita.
Senza ricordare che avevo smarrito le pecore.
Non ricordavo dove tenevo la marmellata di castagne, dove avevo appoggiato il piffero magico delle mie canzoni. Non ricordavo più la differenza tra la neve e le mie pecore, cosa andavo cercando e perché. Ero felice di non accorgermi di me.
Ero riuscito, grazie al vento della corsa degli angeli, a togliere dalla mia testa il punto in cui la trottola del mondo pensavo girasse e mi sono reso conto così che alla mattina quando aprivo gli occhi in realtà li chiudevo. Creavo il mio sogno e utilizzavo tutto per cercare di renderlo più tranquillo, meno difficile da immaginare.

Da allora, alla fine della giornata, mi domando se sono riuscito ad ascoltare il canto degli uccellini, la recita del fiume, se  ho guardato i disegni delle nuvole e salutato il vento che le spinge o le lascia galleggiare sino al tramonto, se ho scambiato un sorriso col sole , apprezzato il colore di un fiore ed il suo profumo.
Io non so come mi chiamo … e questo comincia a piacermi sempre di più, come l’idea di diventare una scia luminosa lungo la linea rossa dell’orizzonte infuocato dall’alba.






giovedì 20 dicembre 2012

VOLO D' ANGELO


Stavo bucando le nuvole con i tacchi a stella dei miei stivali per liberare la neve, quando mi vennero a chiamare perché avevano bisogno d’una mano per spostare il Capricorno.
Non è facile spostare le stelle, bisogna crederci, ma è necessario per far girare il mondo.
Siamo angeli perché riusciamo ad accendere le stelle in una notte; a farle brillare d’Amore.
Mentre volteggiavo nel cielo per raggiungere il Capricorno mi venne in mente la prima volta che mi tuffai nel cielo.
“Ora se vuoi puoi diventare un angelo, vola!” mi disse una voce che non avevo mai sentito ma che conoscevo.
Ero lì, tremante e impaurito. Nudo, senza una nuvola di fico a coprire la saetta dei miei temporali, senza ali, a chiedermi che razza di storia fosse mai quella e poi non avevo nemmeno il portafoglio, la carta d’identità, un ciondolo, una foto, una caramella, niente.
Mi guardavo intorno per cercare una scala, una corda, qualcosa che mi salvasse la vita.
Aggrappato con le dita dei piedi al fumo di una nuvola, mi rifiutavo anche solo di pensare di lasciarmi andare e quello che sarà, sarà.
Non sono stupido gridai e allora ebbi più freddo.
“Se pensi di salvarti la vita la perderai” ritornò a parlare la voce e per un attimo riuscii a guardare dentro di me e vidi che c’era un filo, sottile ma luminoso ed ebbi caldo, si alzò il sole di un sorriso e mi tuffai aggrappato a quel filo … e volai … senza ali, senza più paura.
Vedevo i sentieri fra le nuvole, annusavo il profumo delle stelle e mi lanciavo tra i colori del cielo ai margini delle giornate e mi si tingeva l’anima come un fiore.
Da allora sono in ogni cosa ed ogni cosa è in me.
Ma guarda te mi dicevo, e io che piangevo perché non avevo la caramella!

venerdì 14 dicembre 2012


BOTTO DI FAGOTTO


Per Artamhir, il drago a due teste, il problema era sempre quello: con quale testa ragionare.
Gli capitava di passare ore prima di riuscire a spiccare il volo, perché le sue teste non riuscivano a mettersi d’accordo su dove andare. Era uno zuccone e nessuna delle sue teste voleva cedere, così era più il tempo che pensava a cosa fare che quello che passava a fare cose.

Abitava in due nidi diversi per accontentare tutte e due le teste, uno era nella scogliera e l’altro tra le cime innevate. Insomma il povero Artamihr non era quello che si dice un drago sereno.
Un giorno se ne stava immobile con una testa ad osservare il tramonto e l’altra a guardare dall’altra parte, dove la luna già faceva innamorare, quando un suono lo catturò.
Era una suono nuovo, che mai aveva udito, era dolce come una carezza e penetrante come un pugno, era forte ma docile. Le sue teste si girarono all’unisono verso quel suono che con la sua duplicità le incantava entrambe. Una testa ne coglieva la gaiezza, l’altra la tristezza e Artamihr si ritrovò per la prima volta con le sue teste catturate dalla stessa cosa.
Quel suono intanto si ripeteva, modulando impercettibilmente e ipnotizzandolo lentamente.
Cominciò a muoversi piano, con calma si alzò dal suo nido e senza accorgersi spiccò il volo guidato da quell’irresistibile suono e seguendone le vibrazioni atterrò sulla spiaggia, dove ad attenderlo v’era Lancillotto che suonava il suo fagotto.
La melodia continuava ad incantare Artamihr. Immobile lasciava che quella musica lo avvolgesse e si ritrovò presto dentro ad una sfera vibrante.
Fu allora che Lancillotto riuscì ad armonizzare le due teste del drago, che al risveglio da quell’incantesimo si ritrovarono d’accordo nel riconoscerlo come unico padrone.
Passarono comunque mesi prima che Lancillotto, a furia di suonare melodie con il suo fagotto, riuscisse a convincere il drago a portarlo a spasso fra le nuvole.
Divennero infine inseparabili amici.
Un giorno Artamihr chiese di poter provare a suonare il fagotto che tanto lo faceva impazzire.
“Il problema è il fiato” spiegò Lancillotto al suo nuovo allievo “devi imparare a soffiare senza sputare fuoco”
“Bel problema” rispose il drago
“Ma vediamo cosa si può fare” disse speranzoso Lancillotto.

Tre giorni dopo consegnò ad Artamihr il metodo sul quale avrebbe cercato di insegnargli a suonare il fagotto dal titolo: FIATO PESANTE, rutti e gargarismi per draghi aspiranti fagottisti. Metodo che il drago lesse e bruciò in un fiato.

Era l’ultimo giorno dell’anno quando Artamihr volò sulla superficie del mare e spalancata la bocca bevve litri e litri d’acqua, al punto da non riuscire quasi più a mantenersi in volo.
“Ho le caldaie piene d’acqua, presto!” gridò a Lancillotto appena lo ebbe raggiunto.
Lancillotto allora gli porse il fagotto ed Artamihr emise il suo primo suono.
Fu una specie di rutto da temporale, lungo e profondo che sollevò le onde e abbatté uno stormo di cormorani. Il silenzio che seguì puzzava di bruciato, le ance del fagotto avevano iniziato a carbonizzarsi.
Lancillotto sorrise e da allora, ogni 31 dicembre a mezzanotte, se state in silenzio, potete sentire un temporale lontano della durata di un rutto; è Artamihr, il drago a due teste, che suona il suo fagotto come un botto, bruciando le ance.



Ancia di Artamihr



martedì 11 dicembre 2012

IL BUE


Alla sera, quando rientravo nella stalla,   
il mio  padrone accarezzandomi mi diceva:
“Bravo, bravo il mio Tristano” e lì, al caldo, con tutto quel fieno profumato, mentre fuori sotto il cielo stellato le allodole tenevano il loro concerto con i gufi e il barbagianni, io mi sentivo felice; felice di essere un bue.
Ho sempre fatto fatica a capire perché gli altri buoi e le altre mucche si lamentassero in continuazione: “Poveri noi!” erano solite ripetere “Ma che vita sarà mai la nostra, sempre le solite cose, il solito prato, il solito fieno, muuh! Che noia!”e masticavano di malavoglia.
Io le ascoltavo e non capivo: l’erba era così fresca, tenera, così buona! E quel vento! Quanti profumi!

IN PRIMAVERA ogni giorno era una festa, mille fiori nuovi a colorare i prati e il cielo, sì perché ogni tanto qualche fiore riusciva a staccarsi dal gambo e si metteva a volare davanti al mio muso.
“Sono farfalle” diceva senza entusiasmo la mucca Carolina. E allora? Che differenza fa, è comunque fantastico, e inseguivo stupito quei fiori con le ali.

Poi arriva L’ESTATE, le lunghe giornate all’ombra delle querce, il profumo della terra bagnata dopo un temporale e le calde sere al canto dei grilli.
“Che palle!” si lamentava la mucca Carolina “non hanno niente di meglio da fare?”.

IN AUTUNNO osservavo le foglie che lentamente si cambiavano d’abito, mettevano il loro vestito migliore come per andare ad una festa e in silenzio le vedevo partire, staccarsi dai loro rami e volare come delle farfalle.

La prima volta che la vidi sono rimasto immobile a fissarla come un bue di pietra.
Quella leggerezza schiacciata da tutto quel peso! Eppure lei non si lamentava, con i suoi occhi dolci proseguiva lentamente sul sentiero al di la del pascolo.
Mi sembrava una farfalla che non riesce a volare da tanto peso gli hanno caricato.
Si chiamava Brunilde ed era un asinella.

Era scesa la neve quella notte, L’INVERNO era arrivato: aveva aperto le sue valigie piene di neve e ghiaccio. Si era distesa sui campi a riposare e, dopo aver tappato la bocca ai pettirossi, si era rimboccato la sua coperta di brina.
Io me ne stavo al caldo della mia stalla quando, guardando fuori dalla finestra, la rividi.
Se ne andava sola col suo carico e le impronte dei suoi passi sembravano scrivere, sulla lavagna bianca dell’inverno, una poesia.
Sono uscito dalla stalla e ho cominciato a seguirla, a ricalcare le sue impronte lasciate sulla neve; e ho letto la sua poesia.
Parlava d’Amore, di accettazione, di stupore.
L’ho raggiunta in una vecchia stalla. L’inverno è sempre stato di poche parole e così in silenzio ci siamo guardati. Arrivavamo tutti e due dalla stessa poesia e siamo diventati grandi amici.
Eravamo lì ad ascoltare il meraviglioso silenzio dell’inverno, quando un bagliore ci stupì. Alzammo lo sguardo e, come se arrivassero da quella luce, una donna e suo marito entrarono nella mangiatoia.
La donna era incinta e l’uomo le preparò in fretta, con la paglia, un giaciglio.
Lei si distese esausta e lì, fra un bue e un asinello, diede alla Luce un bel maschietto.
Il padre ci avvicinò alla donna e al bambino per riscaldarli, ma appena ci avvicinammo un meraviglioso calore ci avvolse; quel bambino emanava Amore e i nostri cuori ne furono subito riscaldati.
Rimanemmo lì per tutta la notte, ma avremmo potuto rimanere per tutta la vita.
Sono arrivati in tanti attratti dalla Luce d’Amore di quel bambino e tutti lo salutavano con rispetto.
Quando fu l’ora di partire, quel Bimbo d’Amore ci guardò e in quello sguardo trovai la risposta che sempre avevo saputo; che era meravigliosa la mia vita, era fantastico essere un bue.



domenica 2 dicembre 2012


Fagotto Pinocchio


C’era una volta un albero.
Era nato nella foresta, proprio nel prato dove si riuniscono le streghe per il sabba del plenilunio e lì aveva messo radici.
Da piccolo giocava a braccio di ferro col vento.
Da adulto preferiva dare ascolto agli usignoli che, a spasso nel cielo, trovavano in lui una pausa, un punto di ristoro, un attimo per raccontarsi tutte le cose che durante il volo non riuscivano a dirsi: cose da far tremar le foglie.
Gli piaceva sentirli cantare le meraviglie che vedevano dalle nuvole, dei giri del vento e delle scorciatoie degli angeli.
Era riparo per tutti gli uccelli che tra i crocicchi dei suoi rami avevano costruito la loro casa.
La  mattina alle cinque era come essere alla piazza del mercato, tutti che cantavano di gioia davanti alla vita che s’illuminava.
Da vecchio governò la sua irruenza col tronco fortemente ancorato alle radici. Non ballava solo perché si era deciso diversamente, ma se solo avesse avuto l’opportunità di esibirsi in un passo di danza, avrebbe fatto rimanere a bocca aperta anche le farfalle.
Aveva cento rami, mille e mille foglie da crescere, lasciar morire e veder rinascere.
Aveva mille storie per tutte le direzioni del vento, mille strade per tutte le formiche in vacanza sui suoi rami, mille decorazioni create dagli aghi di bruco e dai ragni ricamatori.
Sulla pelle della corteccia aveva mille rughe, solcate da file di formiche e punteggiate da api indaffarate. Sul tronco portava il segno di qualche tatuaggio con cuore e frecce, nomi di amori trascorsi al fresco delle sue fronde.
Poi un giorno tutto ciò venne abbattuto a colpi di scure.
Una parte di tronco finì fra le mani di un certo mastro Ciliegia, che dopo aver capito di trovarsi davanti ad un legno assolutamente non comune si spaventerà e lo regalerà a mastro Geppetto pensando di fargli un dispetto.
Mastro Geppetto invece ne farà un burattino che chiamerà Pinocchio e che guarda un po’ parlerà.

Poi arriverà una fata, azzurra come il cielo, turchese come il mare e tutti la chiameranno  “Fata Turchina”.
La Fata Turchina faceva un sacco di magie e fra queste vi era anche quella di suonare il fagotto. Quando incontrerà Pinocchio, gli regalerà un fagotto costruito con il legno dello stesso albero con cui mastro Geppetto aveva costruito il suo burattino. Gli insegnerà a suonarlo con molta passione e tanta pazienza. (Così tanta che l’avrebbe sicuramente finita se non fosse stata una fata).

Ancia della fata Turchina


Usava un metodo di cui non è rimasta traccia, dal titolo:
Note corte per nasi lunghi, metodo per fagottisti con la testa di legno.

Non potete immaginare la gioia di Pinocchio quando finalmente strimpellò la sua prima melodia! Tutta la vita del vecchio albero risuonò in quella musica. Nel cuore di Pinocchio, quei suoni rimbombarono come tuoni.
La gioia degli usignoli, i racconti degli uccelli che tra i suoi rami si erano posati, il tremore delle foglie e i chilometri di gioia percorsi dalle formiche lungo il suo tronco, tutto ritornò in una danza eterna. L’albero che c’era una volta riprese a vivere di nuovo fra le note del suo legno divenuto fagotto e fagottista.
Pinocchio vivrà così tante emozioni attraverso il suo fagotto che riuscirà a trasformarsi in un bambino in carne ed ossa.

Un sentito ringraziamento alla fata Turchina e al tocco magico dell’umile Geppetto.