domenica 16 agosto 2020

F.A. VALLOTTI Fiant aures tuae (from De profundis)

 La sua famiglia era così povera da non potergli garantire un’educazione.
Ma il ragazzo aveva negli occhi la fiamma del sapere che chiede l’alimento dello studio, richiesta che i genitori non riuscirono ad ignorare.
 Grazie alla generosità di conoscenti, poterono farlo entrare in seminario. Francesco iniziò così a nutrirsi di conoscenza ed imparò l’arte della musica, dove si contraddistinse per una prorompente passione. Uscito dal seminario si recò a Chambéry per divenire “frate della corda” abbracciando la regola di San Francesco. Vi rimase tre anni, poi di nuovo a Vercelli, la sua città natale. A Milano terminò gli studi di teologia, a quell’epoca aveva venticinque anni, con la vocazione per la musica che, arrampicatasi alla corda del saio, bivaccava nel suo cuore. I suoi superiori, colpiti dalla passione che il ragazzo seminava nel suo incedere e che cercava di non calpestare camminando in silenzio, lo affidarono alle cure di padre Calegari a Padova. Cure che lo guarirono da ogni dubbio riguardo al suo talento. Divenne compositore e organista nella chiesa di Sant’Antonio, dove lasciava i fedeli a bocca aperta, con grande invidia dei sacerdoti, che riuscivano con le loro omelie a far aprire le bocche solo per sbadigliare.

Giuseppe Tartini, celebre violinista con il trillo del diavolo in corpo, lontano dall’acqua santa lo ascoltava con grande ammirazione, considerandolo il più grande organista del suo tempo.
Charles Burney, organista e storico della musica inglese, di passaggio a Padova, dopo aver chiuso la bocca all’ultimo accordo, volle conoscere quel diavolo d’un frate che suonava nella casa di Nostro Signore.
Francesco lo raggiunse sorridendo, con l’eco della musica che ballava fra le pieghe del saio.
Quando Burney uscì dalla chiesa, il sole illuminò la bontà che quel musicista gli aveva appiccicato addosso.
“Non si può conoscerlo senza amarlo” disse poi a chi gli chiedeva di quel Francesco Antonio Vallotti che a Padova lanciava, con le canne dell’organo, l’esca della musica a cui tutti abboccavano.
Aveva ottantatré anni quando smise di pescare lo stupore dalle acque dell’indifferenza.
Era il 10 gennaio del 1780 e l’acqua era ghiacciata.



sabato 8 agosto 2020

J.J. Quantz CAPRICCIO

 

Sulla carrozza che sfrecciava nelle via di Napoli, Johann ripensava alla sua vita. Inseguito dal marito della sua amante scappava alla morte, che ancora una volta lo aveva adocchiato.
Sballonzolato dalle buche della paura, col cuore che saltava in petto, ricordò l’incendio che qualche anno prima ridusse in cenere la piccola città vicino a Dresda dove campava suonando alle feste di paese. Pensò alla fuga dalla morte che quella volta cercava di lambirlo con abbracci infuocati.
Ricordò quando, a soli dieci anni, si ritrovò orfano.
Rammentò il silenzio che lo avvolse nella sua coperta bianca, quando, nell’officina di fabbro del padre, il martello smise di battere il tempo della felicità.
Seguendo la scintilla della musica, che brillava nella sua anima, sprigionata dal maglio che batteva sull’incudine della passione, andò dallo zio musicista che lo tenne con sé cibandolo di pane e musica. Ma ancora una volta la morte lo sfiorò portandosi via lo zio dopo soli tre mesi.
Quando il sole si svegliò stirandosi in raggi luminosi, Johann tirò un sospiro di sollievo vedendo che nessuno più lo inseguiva.
Ancora una volta era riuscito a scappare alla morte.
Johann Joachim Quantz, nato nel 1697 a quel tempo era al servizio del re di Polonia in qualità di flautista e compositore di corte.
La regina di Prussia quando lo sentì suonare ne rimase così affascinata che pensò di non poter più fare a meno di quel pifferaio magico, e gli offrì un lauto compenso affinché rimanesse nel suo castello ad incantarla con la sua musica.
Ma il re suo padrone non lo permise, tenendo quel gioiello prezioso fra i tesori della corona. Concesse però che Johann si recasse una volta all’anno ad impartire lezioni di flauto a Federico, il principe reale.
Federico era un giovane sensibile, appassionato di musica e aspettava l’arrivo di Quantz con la stessa sete che ha una pianta nel deserto.
Quando divenne Federico II re di Prussia lo volle a corte disposto a pagarlo 2000  talleri contro gli 800 che Federico Augusto, successore del re di Polonia gli offriva.
Fu così che Johann divenne il musicista più pagato dell’epoca, considerando anche che il re remunerava ogni sua composizione a parte, con moneta sonante.
Quando Federico II lasciava il castello, insieme ai bauli portava con sé anche il suo clavicembalo, suonato dal quinto dei venti figli di Bach, Carl Philipp Emanuel ed il suo Johann, coi quali passava le serate ad appendere arazzi d’armonie intrecciati con la musica, nei salotti dei nobili.
Quantz era l’unico che poteva applaudire ai concerti del re e la sua musica l’unica che poteva essere eseguita a corte, oltre ovviamente a quella di Federico II.
Musiche clandestine, fra le quali quelle di Carl Philipp Emanuel Bach, risuonavano in segreto nelle cantine, facendo vibrare le fondamenta del castello.
Il 13 luglio del 1773 lo strepitio di una carrozza risuonò tra le vie di Postdam.
Il suono veloce delle ruote, accompagnato dai nitriti dei cavalli, si avvicinava sempre più.
Johann fermò il passo allungato verso il domani e in silenzio chiuse gli occhi, lasciando che la morte, svoltato l’angolo nella sua carrozza  che arrivava da Napoli, lo investisse. Aveva settantasei anni e riempito le stanze della musica con i meravigliosi arazzi delle sue composizioni.
Tutto questo per invitarvi ad ascoltare un suo capriccio per fagotto solo, un piccolo intreccio nell’immensità della sua produzione, che ho registrato durante i mesi di reclusione con l’accusa di favoreggiamento.



martedì 4 agosto 2020

NONNO

Il nonno aveva una bicicletta dal colore indefinito di legno di betulla sbiadito dal tempo.
Sulla canna chiudeva la sua borsa di cuoio con dentro matite rosse da muratore, doppiometro, cazzuola e frattazzo.
Pedalava con calma. Una catena di silenzi o di poche parole e mai inutili.
Sulla bicicletta aveva portato sua moglie in ospedale a partorire, era andato fino in città con sua figlia a comprare la fisarmonica.
Il nonno, un cavaliere con la bicicletta.
Alto e di bell’aspetto, un aristocratico della bontà.
Non aveva la patente, ma un attestato per viaggiare nel cuore delle persone. Arrivava col sorriso beato di chi non conosce la cattiveria.
Sono stato sulla canna di quella bicicletta, dove ho conosciuto la calma e misurato le distanze col fiato corto del nonno.
A cavalcioni sul portapacchi portava a spasso la serenità.
Con la sua bicicletta ha oltrepassato il confine del tempo e ancora oggi capita di vederlo passare sorridente, sulla discesa che regala la salita di chilometri d’amore.