martedì 7 marzo 2017

L’Orchestra da camera dei Serafini
resoconto, racconto, impressioni ed espressioni di un Angelo

Si era seduto al suo posto e aveva iniziato a far due note, provando le ance.
Era stato chiamato come aggiunto all’”Orchestra da camera dei Serafini” in qualità di secondo fagotto.
Quando l’orchestra fu schierata al completo, tra il caotico preludiare degli strumenti sentì aleggiare nell’aria uno sgradevole, persistente odore di merda.
Il suono  dell’orchestra si era spento all’arrivo del direttore stabile, un allampanato vecchietto dallo sguardo severo.
Salito sul podio, prima ancora di salutare l’orchestra, avvertito l’olezzo che impregnava la sala prove disse:
“Beh, sembra di essere già dentro al pezzo”
Infatti sul leggio avevano lo spartito della VI sinfonia di Beethoven detta la “Pastorale”
Il fatto è che la sede dell’orchestra era situata in una piazzetta dove i padroncini erano soliti portare i cani a passeggio e dove questi lasciavano i loro ricordi tra i sassi che pavimentavano la piazza.
Per cui; vuoi la fretta, la mimetizzazione con il pavé, il sovrappensiero, fatto sta che sotto le suole di qualche orchestrale giungeva immancabilmente in sala prove un pezzo di merda.
La prova partì portando i musicisti fuori dalla sala, dentro un altro mondo, dove la realtà si misura  con le emozioni.
 All’intervallo il nostro giovane aggiunto scambiò due parole con i colleghi usciti a fumarsi una sigaretta mentre sfregavano le suole delle scarpe sul bordo del marciapiede.
“Ce l’hai già il frac?” gli chiese l’oboista
“No, non sapevo che bisognava suonare in frac” rispose
“Non preoccuparti, te lo procuro io”
“Va bene, grazie”
“Che taglia hai?...  vediamo … si, ce l’ho”
l’ispettore  chiamò a raccolta l’orchestra, l’ora d’aria era finita, bisognava tornare in sala prove dove l’odore non aveva nemmeno provato ad andarsene.

Il giorno dopo la prova si svolgeva nel tardo pomeriggio e dato che era autunno inoltrato e la piazzetta poco illuminata, la possibilità che qualcuno centrasse una merda era molto alta.
Tutti in seduti, come in mezzo a un campo concimato, l’orchestra iniziò le prove.
Ad un certo punto il primo violino, per un motivo che il nostro “aggiunto” non aveva colto, cominciò ad arrabbiarsi con la spalla dei violoncelli.
“Basta!!” iniziò a gridare con uno sguardo assatanato
“Non è possibile suonare con dei dilettanti!”
“Modera le parole” rispose con calma il violoncellista, abbozzando un sorriso serafico, che ben si addiceva ai ranghi dell’orchestra dei Serafini.
Il primo violino, rosso dalla rabbia, si alzò sbraitando tra lo sgomento dell’orchestra
 “Io non ce la faccio più!! Anni di studio, di sacrifici,  di concorsi vinti, onorificenze,  per suonare con un branco di falegnami! sembra che segate lo strumento! segaioli!”
e alzato il suo famoso violino, da decine e decine di milioni di lire, lo gettò a terra fracassandolo in mille pezzi.
Con un ghigno diabolico abbandonò la sua postazione e s’incamminò verso l’uscita.
Nessuno parlava, il silenzio era totale …  solo il ghigno del violinista, che continuava anche dopo eseere sparito dalla vista.
Qualcuno piangeva e ad Angelo, il nostro aggiunto, il cuore batteva più forte dei timpani.
Il ghigno, che riecheggiava nel silenzio e si fece più forte quando dalla porta rientrò il primo violino con un altro strumento fra le mani.
Indicando il nuovo strumento il ghigno di trasformò in risata.
Avvicinandosi all’orchestra rideva e continuando ad indicare lo strumento disse
“Questo è il mio violino!”
Il primo violoncello, che aveva fatto di spalla allo scherzo, si unì al riso, mentre l’orchestra ammutolita cercava di capire cos’era appena successo.
Quel mattacchione del primo violino si era procurato uno strumento cinese da due soldi da scaraventare a terra per la spettacolo appena andato in scena.
Il direttore, amico dei due individui, si unì alle risa e pian piano  la tensione si sciolse lasciando nell’aria un acre  odore di merda.

Come di consueto Angelo arrivò mezz’ora prima dell’inizio delle prove, voleva scaldare lo strumento, provare le ance, ripassare i passi più delicati del programma, che prevedeva oltre alla VI sinfonia di Beethoven, il primo concerto per pianoforte.
Mentre preludiava spostarono il pianoforte davanti all’orchestra, ma nel muoverlo una gamba si era piegata. La sistemarono alla bella e meglio perché il direttore era già sul trespolo pronto a sventolare la sua bacchetta.
Tra il I e il II movimento compare in sala prove l’ispettore con una cassetta degli attrezzi e si avvicina al pianoforte mentre il direttore e il solista attaccano il “Largo” del II movimento.
Comportandosi come se la sala prove fosse vuota appoggia la cassetta degli attrezzi e si inginocchia sotto al pianoforte come un gommista e mentre la musica comincia a decollare nelle prime estatiche battute, tira  fuori il martello e inizia a picchiare un chiodo alla gamba traballante del pianoforte.
Il solista si ferma stordito, come se il martello lo avesse colpito in testa
“Ma cosa fa?” chiede arrabbiato
“Maestro” risponde l’ispettore “ a ognuno il suo lavoro”
“Ma lei è un maleducato” continua incredulo il pianista
“Se io non le aggiusto la gamba a sto piano, lei non solo non decolla, ma non entra nemmeno in pista”
e giù altre martellate
A questo punto il pianista si alza e senza proferir parola se ne va, mentre il martello insiste col chiodo fisso di chi crede di aver ragione.
Quel giorno la prova fini così.
 “Se corro riesco a prendere il treno prima” pensò Angelo, mentre l’orchestra si dileguava lasciando le prime battute del “Largo” volteggiare nell’aria insieme al tanfo persistente della sala prove.

Il direttore, ormai verso l’ottantina, era a capo dell’Orchestra dei Serafini da più di un lustro e tra un sinfonia e l’altra era riuscito ad inimicarsi gran parte dell’orchestra. Un commento sarcastico qui, una smorfia la, una parola di troppo, un sorriso di meno, lo sguardo sempre più altezzoso , il suo giudizio da uomo di dio, avevano fatto dimenticare alla maggior parte degli orchestrali la sua bravura, che comunque non era eccelsa e forse proprio per questo aveva bisogno di essere sostenuta da un atteggiamento arrogante  e di autocompiacimento.
E così alle prove sembrava di stare su un ring.
“Clarinetto … alla battuta 26 faccia un piano”
“non c’è scritto maestro” rispondeva il primo clarinetto
“Ma lei lo farà”
“Come vuole maestro, ora lo segno”
“No!” si accendeva il direttore “Non segni nulla, lo faccia e basta!” non voleva infatti che si segnasse sulle parti, perché erano le sue parti personali e ciò che necessitava di essere scritto lo aveva già scritto lui ad ognuno.
“Se non lo segno non me lo ricordo” continuò il clarinettista, ben sapendo della suscettibilità del direttore nello scrive sulle parti, e presa la matita scrisse il suo piano.
Il direttore incassa il colpo, ma risponde con un destro: chiude la partitura e se ne va.

Il giorno dopo l’orchestra è sul piede di guerra.
Dopo pochi minuti di prova il direttore ferma l’orchestra
“Primo fagotto, lei entra sempre i ritardo”
“Non è colpa mia” risponde il fagottista e continua “devo avere il tempo di girare la pagina. Suono con tutte due le mani io e  devo toglierne una dallo strumento, portarla al leggio, prendere il foglio, girarlo, riportare la mano allo strumento e riprendere a soffiare. Ci vuole tempo”
Il direttore cerca di schivare il tiro mancino ma subisce il colpo e prosegue.
Mentre il direttore è impegnato a studiare un passo con i violini il nostro primo fagotto coglie l’occasione di spiegare ad Angelo, il secondo fagotto, come lui eseguiva un trillo e inizia a suonarlo e risuonarlo per farlo sentire al secondo fagotto, ma a sentirlo è tutta l’orchestra e il direttore irritato  si rivolge al fagottista
“Ma allora! non sente che sto provando coi violini?”
“Maestro lo faccio per il suo bene” rilanciò il primo fagotto
“Il mio bene!!” gridò il direttore colpito da un dritto
“Io me ne frego” continuò e alzati i pugni impugnò la bacchetta
“Da capo” e dato l’attacco l’orchestra partì.
La lotta era ormai all’ultimo sangue, qualsiasi cosa succedeva durante l’esecuzione il direttore tirava dritto senza fermarsi, voleva dimostrare che a lui non gli fregava nulla di come usciva quella sinfonia e l’orchestra allora faceva apposta a sbagliare. Il forte diventava piano, e il piano forte. Le corone ad libitum soggettivo, lo staccato legato, il legato così staccato da sembrare una mitragliatrice. Il povero Beethoven  assisteva dal cielo a quella furente esecuzione osservando l’impeto degli sguardi,  protetto dalla sua sordità.
Finalmente l’ultimo accordo mise fine a quella battaglia dove non ci furono ne vincitori ne vinti, solo lo scempio di un capolavoro massacrato e abbandonato sui leggi, che se ne rimasero nel  buio di un sala vuota
in un silenzio che puzzava di merda.

Alla prova generale arrivò il frac di Angelo appallottolato dentro a un sacchetto di plastica.
“Hai fatto un affare! sono 100 mila lire. Questo è un frac che non trovi più”
“In che senso?” rispose Angelo
“Frac così al giorno d’oggi te li sogni. Questo ti dura tutta la vita”
Angelo tolse il frac dal sacchetto  e subito notò che era molto pesante
“E’di lana?”
“Ma non sudi te lo garantisco” replico prontamente l’oboista commerciante
“La tasca interna è scucita” fece notare Angelo
“Una sarta con due lire te la sistema”
Angelo indossò il suo frac, il suo primo frac. Aveva le code e questo gli bastava.
Diede i soldi all’oboista che non fece in tempo a metterli in tasca che già proponeva ad Angelo una linea di detersivi per la casa.
“Sono prodotti incredibili, vengono dalla Cina e li si che le pulizie le sanno fare, mica come da noi che ti vendono prodotti che costano un pacco di soldi perché sono biologici, biodegradabili, bionici, con i fiori di campo, senza impatto ambientale e non testati su animali. Peccato che non pulisco un cazzo!
Fidati, prova un mio candeggiante al cloro, ti sbianca anche un negretto”
L’ispettore chiamo l’orchestra mettendo fine alla vendita dell’oboista, che come imbonitore non sbagliava un passo.
La prova si svolse in un clima sufficientemente pastorale e rilassato almeno durante la prima parte.
Dopo la pausa infatti, durante il IV movimento della Sinfonia, nel pieno della “tempesta”, il direttore fermò improvvisamente l’orchestra provocando un specie di colpo della frusta ai tromboni e alle trombe che stavano andando a manetta. In un risucchio di polmoni improvvisamente svuotati il direttore gridò furibondo a un violinista di fila “Allora! la smette di tirarsi su il maglione che le cade dalle spalle mentre suona? lo appoggi da qualche parte!”
Il violinista, trovandosi improvvisamente al centro della scena, si alzò tronfio, deciso a non  perdere l’occasione di far vedere che lui era si un violino di fila ma non era un coglione, anche lui aveva le palle per rispondere al direttore
“Il maglione è mio e lo metto dove voglio io. Se mi gira lo metto anche in testa” e subito fece seguire alle parole i fatti e messosi il maglione in testa si sedette, inforcò il violino pronto come non mai ad affrontare i passi più difficili.
Che gli mettessero davanti anche la “Sinfonia delle alpi” di Richard Strauss!
lui i passi li avrebbe superava tutti! non aveva paura!
e nemmeno freddo, il maglione se lo portava sempre sulle spalle pronto per l’uso. 
Il direttore, senza proferir parola chiuse la partitura e se ne andò.
La prova generale era finita.
“Che culo, riusciamo a vedere la partita dall’inizio” esclamò la prima tromba riponendo velocemente lo strumento nella custodia
Il secondo oboe aprì l’armadietto, di quelli che si usano nelle palestre e vi infilò dentro lo strumento così com’era, senza  pulirlo, smontarlo, con l’ancia inserita. L’avrebbe ritrovato così bell’e e pronto per il giorno dopo.

Il giorno dopo era il giorno del concerto.
La sala dei concerti de”L’Orchestra dei Serafini” era utilizzata anche come cinema.
Angelo  arrivò quando la proiezione pomeridiana del film in programma per quella settimana,
“Vita smeralda” un film di Jerry Calà, era appena terminata.
Dalle persone che vide uscire capì che la sala doveva essere stata piena.
“Di gente ne viene in questo posto” pensò “Stasera pienone”
Ma quella sera, quando uscì sul palco con il suo nuovo frac di lana, che alla faccia dell’oboista lo faceva sudare come un pinguino nel deserto, rimase meravigliato nel vedere che il pubblico non occupava nemmeno metà delle poltrone.
E l’età media superava abbondantemente i 60.
“Suona forte” gli suggerì il primo fagotto quando si furono seduti al loro posto “se no il pubblico non sente.
Sono un sordi. Settimana scorsa hanno cominciato a uscire dalla sala mentre ancora stavamo suonando il finale dell’”Idillio di Sigfrido”. La musica era così piano che non sentendo più niente hanno cominciato ad applaudire, si sono alzati hanno messo i cappotti e se ne sono andati”
“Non ci posso credere” ribatté Angelo
“C’era un signore che cercava di fermarli, di dirgli che non era finito, ma nessuno ha voluto credergli e così è rimasto solo lui a godersi il finale in santa pace”
L’oboista lanciò il La in orchestra e i musicisti iniziarono a prenderlo al volo.
Quando ogni orchestrale ebbe catturato il La nello strumento, il silenzio arrivò come una folata di vento.
Accompagnato dal flebile applauso del pubblico entrò il direttore …  un inchino … giravolta … bacchetta in pugno … sacro silenzio … e la magia iniziò a riempire l’aria, a entrare nelle orecchie, nella testa, nei polmoni, nelle vene e senza scampo ad impossessarsi  del cuore.
L’ispettore, incantato, con la valigetta degli attrezzi dimenticata in un angolo, ascoltava rapito da dietro le quinte. Il solista iniziò a  decollare con la gamba del pianoforte salda e pronta all’atterraggio.
Il direttore guidava e si faceva guidare dall’orchestra, che aveva cambiato voce, colore.
L’oboista commerciante suonava in maniera pulita come nemmeno i suoi prodotti cinesi più efficaci, il violino della spalla cantava, felice di essere ancora tra le mani del suo padrone burlone, i trilli dei fagotti sembravano stelle, gli squilli delle trombe quelli degli angeli serafini schierati ad osservar il firmamento.
Angelo si guardò intorno e vide volti felici di essere su quell’astronave, che viaggiava a tutto volume, senza intoppi, nella galassia della musica . Le rivalità, le antipatie, gli affanni, le preoccupazioni le osservavano dall’alto, senza più coinvolgimento, presi com’erano a navigare tra le costellazioni della musica.
Quel viaggio se lo erano guadagnato  con una vita di studio, di sacrifici, di cadute e forza nel rialzarsi, di delusioni, speranze, dedizione, costanza, umiliazioni necessarie per andare avanti senza boria, quando l’orgoglio cresceva con la bravura e invitava l’arroganza a salire sul palco con loro.
E ogni volta pagavano il biglietto con la concentrazione, come un equilibrista che cammina su un filo e cerca di non cadere, ogni volta ci mettevano la faccia e i più buoni il cuore.
La musica c’è solo nell’attimo in cui passa ed è in quell’attimo che bisogna esserci.
E l’orchestra dei Serafini era lì, con i suoi difetti, le sue frustrazioni, la sua misera umanità, i suoi dispiaceri e le sue meschinità, ma c’era … era li nell’attimo della musica, e risplendeva , risuonava come una stella nel buio e nel caos del rumore di un umanità che cerca solo di avere, di possedere, di apparire.
L’astronave atterrò e poco importa se ad applaudirla ci fossero solo pochi saggi vecchietti, quel che conta è che ancora una volta la bellezza impalpabile, fugace, eterea della musica sia passata su questo pianeta a ricordare all’uomo che si vive d’emozioni.